Il dono non è un extra. È la forma che scegliamo di dare a ciò che siamo.

Ti è mai capitato di ricevere un dono che raccontava più di mille parole? O di offrirne uno che ti ha fatto sentire una persona più connessa che generosa?

Il dono ha questa capacità misteriosa: non è solo un oggetto, del denaro, un bene, servizio o un gesto. È una forma di relazione, un modo per dire “ci sono, ci tengo, ti riconosco”. Eppure, nel lavoro sociale, educativo, cooperativo, il dono è spesso messo tra parentesi: riservato alle raccolte fondi, ai pacchi natalizi, a qualche iniziativa simbolica.

Ma cosa accadrebbe se provassimo a portarlo al centro dell’identità della nostra organizzazione? Se lo trattassimo non come una concessione, ma come un modo di fare le cose?

Ecco la domanda che ci accompagna: cosa vuol dire, davvero, che “il dono deve diventare parte del brand”?

 

Le frasi fatte sono fatte per essere agite

 

Ci sono frasi che sentiamo dire mille volte. “Bisogna dare prima di ricevere.” “Il dono è un atto gratuito.” “L’importante è il pensiero.” “Metterci il cuore.” “Fare rete.” “Creare valore.”

Sono formule che suonano bene, ma rischiano di diventare “biglietti da visita emotivi” se non le prendiamo sul serio. E prenderle sul serio vuol dire una cosa sola: domandarsi come si fanno.

Quando diciamo: “il dono deve diventare parte del brand”, cosa stiamo dicendo davvero? Che non lo è mai stato? Che l’abbiamo perso per strada? Che ci è sfuggito di mano, nel correre dietro a bilanci, progetti, bandi, urgenze?

O forse stiamo semplicemente guardando con occhi nuovi ciò che è sempre stato lì, nel DNA più profondo delle organizzazioni del Terzo Settore? Perché se c’è qualcosa che distingue queste realtà è l’intangibile che veicolano: il tempo donato, l’ascolto vero, la fiducia costruita. Quelle cose che non stanno nel bilancio, ma danno senso a tutto il resto. Anche se i più bravi riescono anche a fare stare questi elementi intangibili anche sul bilancio (*qui uno strumento utile).

Forse non si tratta di inventare qualcosa di nuovo. Ma di tornare a vedere, nominare, onorare ciò che già siamo. E offrirlo (con intelligenza, con grazia, con metodo) anche a chi sta nel mondo profit, nelle istituzioni, nelle comunità come un pezzo di sapere che è giusto condividere.

Le parole che usiamo — anche quelle apparentemente banali — sono contenitori di senso. Se le lasciamo vuote, restano suoni. Se le abitiamo, diventano forme. E forse è proprio lì che il dono può cominciare a mostrarsi:

Non come una frase fatta. Ma come un gesto quotidiano “fatto bene” – una generalizzazione che meriterebbe un intero articolo –.

 

Il dono non si aggiunge, si incarna

 

Anche nel Terzo Settore, il brand non è il logo, il payoff o la grafica coordinata. È l’identità percepita: ciò che le persone pensano e sentono quando entrano in contatto con noi, con i nostri servizi, con le nostre relazioni. In questo senso, il dono non si aggiunge all’identità. La attraversa. La può rendere riconoscibile, coerente, diversa.

Il punto non è “chiedere” in modo gentile, ma agire il dono come forma costante del nostro modo di stare al mondo. Nelle parole, nei processi, nelle micro-decisioni quotidiane.

 

Coerenza: il dono si sente quando è vero

 

Non puoi chiedere un dono se non sei disposto a donare tu per primo. È una regola antica, eppure dimenticata: la credibilità nasce dalla coerenza.

Quando un’organizzazione si presenta come orientata al dono, chi la incontra si aspetta di sentirsi accolto, ascoltato, visto sia come donatore che come persona che conta. Questo vale per i beneficiari, per gli operatori, per chi lavora dietro le quinte.

Il dono è una questione di relazioni prima ancora che di risorse. Una cultura del dono autentica si riconosce nei processi, non nelle campagne. È lì che può fare la differenza: quando le scelte organizzative danno forma al rispetto, alla partecipazione, alla fiducia, alla sostenibilità integrale.

 

Il dono ha avuto molte forme. Oggi può ancora evolvere.

 

Nella storia, il dono è stato carità, sacrificio, offerta, privilegio. Ma oggi possiamo riscriverlo. Possiamo scegliere di vederlo come scambio generativo, riconoscimento reciproco, azione che crea legame.

E quando cambiamo sguardo, cambia anche la possibilità di partecipazione.

In una cultura del dono accessibile, ciascuno può trovare il proprio modo di contribuire: anche chi ha vissuto esperienze di esclusione, anche chi ha abilità diverse, anche chi pensa di “non avere nulla da offrire”.

Quando il dono diventa parte del brand, allora il brand diventa uno spazio che include.

Vediamo un caso reale

Quando una consegna diventa relazione

In Cooperativa Monteverde, la consegna dei blocchetti della lotteria è diventata un’occasione educativa e relazionale.
Non sono solo fundraiser e volontari specializzati a occuparsene: sono gli operatori, insieme ai beneficiari, a portare i blocchetti ai donatori. Un esperimento cominciato quest’anno.

Certo, il processo rallenta. Ma la catena del valore si amplia: beneficiari, educatori, donatori entrano in contatto.
Una consegna diventa una relazione. Una relazione diventa un’esperienza educativa.
E così tutti — non solo il fundraiser — sono parte del gesto di dono.

Lotteria Monteverde 2025

Non qualcosa in più, ma qualcosa di diverso

Integrare il dono nel brand non vuol dire aggiungere attività a quelle ordinarie dell’organizzazione, ma trasformare il senso di ciò che già si fa ogni giorno nei servizi e nei processi..

Significa, ad esempio, trasformare una semplice consegna di un blocchetto della lotteria in un’occasione di relazione.

Significa creare spazi e azioni in cui chi partecipa possa anche proporre, costruire, lasciare il segno indipendentemente dal ruolo: donatore, beneficiario dei servizi, operatori, educatori, fundraiser…

Significa che ogni processo, anche il più tecnico o operativo, può diventare una scena in cui il dono accade: un’occasione!

Vediamo un caso reale

Quando un ringraziamento diventa un laboratorio di dono

In un’altra esperienza, un ente ha scelto un piccolo cluster di donatori e, invece della classica lettera di ringraziamento, ha coinvolto i beneficiari nella sua realizzazione.

Nei laboratori hanno creato a mano la carta; l’ufficio fundraising ha predisposto il testo; educatrice e beneficiari hanno discusso insieme cosa raccontare e come farlo; poi, passo dopo passo — dalla digitalizzazione alla stampa — hanno costruito il ringraziamento.
Infine, la lettera è stata consegnata a mano.

Non mille lettere. Dieci. Ma tutte autentiche.
Il risultato? Tutti i donatori hanno rinnovato il loro sostegno. E, soprattutto, erano felici.
Come lo erano beneficiari, educatori, fundraiser: perché tutti, davvero, erano dentro il gesto del dono.

La lettera di Monteverde prodotta direttamente dai beneficiari

Conclusione – Il cerchio si chiude, il messaggio resta

Forse quel dono che ti ha colpito — quello di cui parlavamo all’inizio — ti è rimasto impresso perché era coerente. Perché era parte di qualcosa di più grande, anche se non te ne sei accorto subito.

Ecco cosa può diventare il brand di un’organizzazione orientata al dono: una promessa visibile, credibile, contagiosa. Una forma che parla non solo di quello che facciamo, ma di come e perché lo facciamo.

Non è solo una questione di raccontarsi bene. È una questione di scegliere, ogni giorno, di essere leggibili. Di essere donabili. Di fare spazio, anche solo con un gesto, a qualcosa che assomiglia a un legame.

 

 

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Stefania Toaldo

Stefania Toaldo

Consulente di Fundraiserperpassione - Brand Team Manager e Coordinatrice dell’area progettazione e Sviluppo di Cooperativa Monteverde

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