I tempi del fundraising, ai tempi dell’AI

I TEMPI DEL FUNDRAISING AI TEMPI DELL’AI
di Matteo Fabbrini

Questo weekend ero a Perugia per un incontro con ASSIF, l’associazione italiana dei fundraiser. Come sempre, in questi momenti si parla di lavoro, di evoluzioni professionali, di che piega sta prendendo il nostro mestiere. Quest’anno, tra i vari dibattiti, inevitabilmente c’è stato quello sull’intelligenza artificiale.

Anche ai tavoli delle cene, di fronte ad una distesa di salumi che ha inficiato la mia tendenza vegetariana, il dibattito sull’AI non è mancato.
Tra gli interventi, ho trovato particolarmente stimolante quello di Matteo Lobbiani, CTO di NextBit, che ha messo a fuoco – tra le altre – due direzioni interessanti su come l’AI può cambiare il nostro modo di lavorare.

Thirst di Scott Harrison
Meno tempo sul database, più tempo con i donatori

Il primo punto riguarda la possibilità di automatizzare molte attività operative: qualificazione dei donatori, gestione dati, segmentazione, scrittura testi. Questo non è solo un guadagno di efficienza. È una prospettiva che può riportare il fundraiser al cuore del suo lavoro: le relazioni.

Se usata bene, l’AI ci può liberare tempo prezioso per conoscere i nostri donatori, ascoltarli, costruire legami solidi. In un mondo dove tutto accelera, stare nelle relazioni non è un lusso: è quello che fa la differenza.

Più personalizzazione, anche per i piccoli donatori

Il secondo punto toccato da Lobbiani è altrettanto interessante. Grazie agli strumenti di AI, la personalizzazione delle comunicazioni non è più un privilegio riservato ai grandi donatori. Possiamo iniziare a segmentare e parlare davvero in modo rilevante anche con chi ci dona 20 euro all’anno.

Questo non è uno “sgamo tecnologico”. È una possibilità per riconoscere il valore di ogni donatore, i suoi interessi, le sue motivazioni. Un tecnicismo che può davvero cambiare la qualità della relazione con i donatori.

Thirst di Scott Harrison

Accanto all’entusiasmo, però, personalmente porto anche una preoccupazione. È una cosa che mi porto dietro da tempo, ma che ho sentito chiaramente riemergere durante questi confronti.

Quando studiavo all’università, sottolineavo i testi e poi riscrivevo a mano le parti più importanti. Ho scoperto che non era un semplice esercizio di calligrafia. Era un gesto lento e quindi un modo per dare tempo al cervello di elaborare. Quei fogli non li ho mai riletti e gli esami li ho sempre passati con ottimi voti.

Oggi abbiamo strumenti che promettono di farci risparmiare tempo, ma spesso non è quello che accade. Invece aumentiamo la velocità, e con essa il carico di lavoro. La produttività cresce, ma spesso la comprensione e la lucidità fanno un passo indietro. Il rischio? Più errori, più stress, meno lucidità.

Io non sono tecnofobico. Al contrario: ho sempre seguito, usato e apprezzato le tecnologie digitali. Ma penso che alcuni processi vadano lasciati lenti, umani, ripetitivi. Perché è lì che immagazziniamo informazioni e così conosciamo meglio i nostri donatori, i nostri progetti, le parole che usiamo.

Consigli da uno che ama la tecnologia

Chiudo con qualche spunto, che vi propongo. Nessuna verità assoluta, solo una visione che vi condivido:

  • Testate gli strumenti digitali (AI inclusa), sperimentate. Non tutto serve a tutti. Capite cosa vi semplifica davvero il quotidiano e cosa no.
  • Bene gli automatismi, ma non sempre e ovunque! Ogni gesto di analisi è un modo per conoscere e immagazzinare informazioni che ti faranno diventare una professionista migliore.
  • Non cedete alla FOMO* digitale. Là fuori ci sono migliaia di strumenti pronti a “risolvere ogni tuo problema”. Non è vero. Quelli che fanno davvero la differenza stanno nelle dita di una mano.

Nell’epoca dell’“all-you-can-eat” vogliamo tutto, subito e in abbondanza. Anche nel lavoro, anche nella tecnologia. Ma non ci lasciamo il tempo: per capire, per scegliere, per assorbire. E alla fine, un po’ come dopo la cena “all-you-can-eat” di salumi di cui parlavo all’inizio, la sensazione che ti resta non è proprio di benessere. Anzi.

 

*FOMO – Acronimo di Fear Of Missing Out, ovvero “paura di restare indietro” (o fuori). È quella sensazione che ti prende quando vedi che tutti stanno usando un nuovo strumento, una nuova piattaforma o l’ultima AI uscita… e tu ancora no. Nel fundraising digitale, può trasformarsi in una corsa a testare qualsiasi software prometta miracoli.

 

Matteo Fabbrini

Matteo Fabbrini

Consulente di Fundraiserperpassione

Dopo aver conseguito il Master in Fundraising a Forlì nel 2015 ha lavorato come fundraiser presso enti culturali e presso l’Università degli Studi di Torino.

Per 7 anni ha gestito il progetto Talenti per il Fundraising di Fondazione CRT, formando 160 fundraiser e favorendone l’inserimento in 70 enti del territorio.

Dal 2022 è stato il Responsabile Fundraising di Fondazione Time2 a Torino, mentre per 4 anni è stato il referente regionale dell’Associazione Italiana dei Fundraiser (ASSIF).

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